
Siamo alle solite, pare che – soprattutto a fine agosto, verso l’inizio del nuovo anno scolastico – non si possa fare a meno, di fare uscire articoli (qui si esibisce con tutta la sua autorevolezza il Sole 24 Ore, a firma Nicola Gardini – autore di “Viva il Latino”) sulla supposta utilità (o inutilità per chi la pensi diversamente, allo stato attuale della discussione sarà infatti ben difficile far cambiare idea a qualcuno) della formazione umanistica: in genere sotto le vesti, dichiarate nel titolo o nell’incipit del pezzo di “attacco al liceo classico”.
Se non è per contrastare il lamentato abbandono del Liceo Classico allora si tratta di salvare quella sorta di soldato Ryan del corpo dei Marines (esercito della libera Repubblica della Cultura, al momento alle prese con una rotta che non si è vista neanche a Caporetto) che ormai è divenuto lo studio del Latino: e qui si esprime argomentando un’icona come il Settis, su Repubblica, poco tempo fa.
Sempre parlando per icone, Umberto Eco, a suo tempo non aveva mancato di rappresentare il problema (in questa bella Bustina di Minerva, nel 2014) in termini diversi, ma risalendo coi suoi bei modi all’archetipo della memoria:
”’Ma perché è così importante sapere che cosa è accaduto prima? Perché molte volte quello che è accaduto prima ti spiega perché certe cose accadono oggi e in ogni caso, come per le formazioni dei calciatori, è un modo di arricchire la nostra memoria”’. Formulazione solo un po’ meno pessimistica del Coloro che non ricordano il passato sono condannati a ripeterlo di George Santayana.
Insomma, ottimi riferimenti, discutibili quanto vuoi ma ottima base davvero per tutti gli articoli e le articolesse di fine estate (anche di dubbia qualità: per cortesia evitiamo di additare mister FB ad esempio di cogenza dello studio del latino; coniugare qualche sua lettura giovanile con il successo che gode significa solo ignorare che la statistica non si applica al singolo individuo; di questo passo si potrà anche giustificare la notorietà di qualche particolare esamificio con la figura ispirazionale del calciatore di turno, suo ex-alunno, reificazione del feticcio tardocalvinista del successo terreno).
Qualche dubbio mi viene, e mi viene rileggendo e riflettendo su quanto si diceva riguardo questi stessi problemi più o meno un secolo fa (non penserete mica che la descresciuta rilevanza degli studi umanistici rispetto ad una presunta familiarità con la téchne sia da imputarsi alla sola riforma gelmini, riforma che non per disattenzione scrivo in minuscolo). Questo perché non riesco, sarà certo miopia mia, a trovare in quanto si argomenta oggi, rispetto a quanto si faceva allora, nuove idee, rinnovati moventi per rimettere un po’ di umanesimo al centro del paese, invece di demolirlo completamente, per far spazio al nuovo e luccicante centro commerciale.
La lettura, anche sommaria, di un tomo come il Latin and Greek in American education, with symposia on the value of humanistic studies, di Kelsey, Francis W. (1911, New York, London, The Macmillan Company) è illuminante e sconfortante al tempo stesso: vi potrete trovare un bel repertorio, completo ad abundantiam, di considerazioni e motivazioni a critica e supporto dell’educazione classica nel sistema scolastico statunitense di un secolo fa; motivazioni per la stragrande parte ancora valide e usate anche oggi. Ma si tratta ormai di merce di un secolo fa, appunto – ricicciamo cose già viste e sentite (sempre meglio che dimenticarle, ma non sembra sufficiente).
Nel frattempo, come direbbe Severino, qualche piccolo salto epistemico è avvenuto e sta avvenendo: il mondo fatto a nazioni di fine ottocento è diventato il mondo fatto a subcontinenti (e visto che ci siamo se qualcuno vuole dare premi – ovviamente postumi, di Nobel sulle intenzioni ne abbiamo già avuti a sufficienza – alla verificata capacità di previsione, Orwell/Huxley sono sempre pronti ad accettarli); molte fisicità e distanze sono state virtualizzate dai computer e da Internet; il lavoro, ci piaccia o no, sta per diventare la merce scarsa dalla seconda metà del XXI secolo in poi.
Cosa volete che abbia a che fare il latino, il greco, il liceo classico (o anche il liceo scientifico vero e proprio buonanima, quello di prima della riforma gelmini) in tutto questo? La questione è aperta: a trovar nuovi moventi, molte più persone verranno a prestarvi fiducia. Altrimenti una formazione semplificata venduta come maggiormente orientata ad un presunto risultato pratico sembrerà molto più attraente – l’erba cattiva scaccia quella buona: poche persone hanno nozione su come l’investimento scolastico abbia ritorni a distanze così lunghe da dubitare vi sia capacità predittiva alcuna su di esso. Non crediate che il ministro che vari l’attuale buona riforma scolastica sarà ancora al suo posto quando ne trarrete le somme, mentre anche oggi un caffè postumo a Giovanni Gentile, a prescindere – e con qualche non piccola difficoltà – dalle sue idee politiche, posso ancora pensare di offrirlo.
Non è decisivo continuare a ripetere l’utilità della formazione classica rispetto all’idea di uomo così come è ora: serve piuttosto individuare, se esiste, una specificità di questo tipo d’istruzione nella realizzazione dell’uomo che meglio sarà adatto ad affrontare più o meno ipotetiche sfide future (il che esclude sin d’ora, sia chiaro, l’ipotesi di considerare il modello del “buon consumatore” come ancora praticabile nel medio periodo): un problema di rinnovato umanesimo. O forse di marketing della cultura classica, a voler essere davvero cinici: in fondo abbiamo solo 3/4 mila anni di civiltà della parola scritta alle spalle, quasi nulla se pensiamo che l’homo sapiens si è evoluto in questa forma attuale ben 200 mila anni fa. Possiamo pensare infatti, visti i tempi intercorsi, che quanto sia stato buono per l’uomo dell’Ottocento sarà buono anche per l’uomo del XXI secolo tanto quanto come che l’intera civiltà della parola scritta sia irrilevante rispetto all’evoluzione della razza umana nel suo complesso. In mezzo tra queste due posizioni ci sta tutto: i markettari potranno esibirsi in scioltezza.
Facciamo un altro po’ d’ironia? Dove sono quelle anime candide che un secolo fa propagandavano la maggiore utilità nello studiare il tedesco rispetto al latino? Con lo stesso metro dovremmo oggi imparare (oltre all’inglese, in ordine di utenza), spagnolo, cinese mandarino, hindi indiano – ammesso che negli ultimi due casi le lingue “ufficiali” siano poi veramente praticabili sul posto (e parlandone da ignorante, beninteso), russo. Fico, ma solo in apparenza: alla fine si scopre che gli scienziati, per la scrittura e la condivisione della propria produzione, convergono al più su una lingua sola (l’inglese, dove una volta era il latino). E io invece dovrei studiare – ad esempio – cinese mandarino per capire, da buon consumatore, il manuale di istruzioni del mio nuovo telefonino? No, mi spiace, come buon consumatore pretendo che le istruzioni mi vengano somministrate nella mia lingua madre – oppure rassegnarmi a leggerle in inglese ovvero considerare la cosa ostativa all’acquisto del telefonino stesso. O per intraprendere, sempre da buon consumatore, un bel viaggetto e leggere dal vivo i cartelli stradali in lingua? O ancora per tradurre, ovviamente sottopagato, qualche cartella stampa? La finisco qui per non rattristarvi ulteriormente.
Molto meglio imparare a pensare e a comunicare concetti, piuttosto che parole: nulla abbiamo di meglio a questo fine delle arti demodé del trivio e del quadrivio. Ma serve un nuovo quadro di riferimento per riproporne la cogenza – e in fretta, ad attendere un salto epistemico prossimo venturo che ce la mandi buona c’è il rischio di passare nel frattempo allo stato di reperto museale.
Tentiamo una congettura? Ma una banale: quei genialoidi dell’Università della California a San Diego stanno facendo un po’ di ipotesi ed esperimenti su come il cervello apprenda le informazioni, e te lo spiegano pure: “Using these approaches, no matter what your skill levels in topics you would like to master, you can change your thinking and change your life. …If you’ve ever wanted to become better at anything, this course will help serve as your guide.”
Magari, a ben vedere, l’apprendimento in età preadolescenziale, di rudimenti di latino e di greco è un’attività che si sposa meglio di altre ad applicare questi concetti – quindi a trarne vantaggio. Questa si che sarebbe una (lieta) sorpresa. Ma è solo una congettura, al momento senza verifica sperimentale.
Nel frattempo, sulla scorta dell’evoluzione della neolingua orwelliana, tengo care le lingue morte (assieme all’ermo colle): oltre a tutto quanto già ben noto, anche come gioco di società funzionano ancora benissimo; nuove e migliori argomentazioni a loro favore verranno – e anche con dati a supporto, si spera.
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